Per gustare «la speranza della Domenica» bisogna passare dalla «Croce» e dal «sepolcro», perché la «Resurrezione è vera quando abbraccia la morte e la sepoltura». Il vescovo di Acerra esorta i fedeli della sua diocesi a trasformare quella che vorremmo fosse una «parentesi», l’emergenza sanitaria in corso, in un «invito a maturare un’esistenza diversa». «In questo anno ancora segnato dalla pandemia facciamo in modo che il Venerdì e il Sabato del santo Triduo, la Croce e il sepolcro, siano cattedre di insegnamento per cambiare e convertirsi, prestare orecchio e cuore ai tanti drammi causati dalle ingiustizie e dalla violenza, e trovare così il coraggio di gesti di pace e di carità». E’ l’appello di monsignor Antonio Di Donna lanciato nel corso della catechesi – trasmessa on line il 29 marzo e ancora disponibile sulla pagina Facebook e il canale YouTube della “Diocesi di Acerra” – in preparazione alla celebrazione della Pasqua. Il presule prende a prestito «la teologia dei tre giorni» di Hans Urs von Balthasar per aiutare il suo popolo ad entrare «bene» nel «dramma del Venerdì» e nel «silenzio del Sabato» e così vivere autenticamente «la speranza della Domenica».
Monsignor Di Donna parla della «notte» e dei suoi primi bagliori, per «leggere questo tempo di pandemia alla luce del Mistero del Signore crocifisso, sepolto e risorto». Del resto, «la notte fa parte del cammino della nostra fede» e in essa «Dio prepara le grandi cose della storia della salvezza». Perciò, il Giovedì Santo è «la notte del tradimento», ma anche «una notte d’amore nella quale il Signore compie l’atto più grande della sua vita, consegnandosi a noi per sempre nel suo corpo e nel suo sangue». E poi «le tenebre del Venerdì Santo, che scendono sul mondo in quell’ora in cui l’umanità compie l’atto più terribile della storia». Eppure, anche in quel momento sulla Croce, il Figlio di Dio ucciso dagli uomini,
morendo «dona lo Spirito Santo». Infine, la «grande Veglia di Pasqua», che diventa «notte beata» mentre il buio che raccoglie l’assemblea viene squarciato dal canto dell’Exsultet, perché «Cristo è risuscitato dai morti» e l’uomo è chiamato «dalle tenebre alla luce per guardare con occhi nuovi la storia».
Una notte è scesa su di noi, e ci è più familiare in questa Settimana Santa, sospira il vescovo: da un anno «siamo entrati nel tunnel della pandemia» e ancora «non sappiamo quanto resta» nonostante i primi lampi di luce del vaccino. Una dura prova per la fede, ma la notte ci appartiene, perché in essa Dio si manifesta.
«La pandemia ha rivelato il dolore del mondo e le tenebre della passione del Signore sembrano dilatarsi ai nostri giorni: nella morte in solitudine e brutale dei nostri cari, nel senso di impotenza dei nostri medici e infermieri, nello smarrimento delle Istituzioni e della Chiesa, nelle limitazioni alle relazioni sociali e nella la riduzione o perdita del lavoro. Una ricaduta sociale immensa», dice ancora monsignor Di Donna.
E la risposta alla domanda: «Dov’è Dio?», pensando magari ad un «mago che risolve i problemi», ci viene invece dal vangelo di Marco per bocca del
centurione romano sotto la Croce, il quale «vistolo morire in quel modo» fa la professione di fede più importante: «Davvero quest’uomo era figlio di Dio». Egli non vede miracoli e nessun segno di gloria, ma è l’unico ad accorgersi di un condannato a morte che muore in modo diverso: invece di bestemmiare e maledire pronuncia parole di pace – «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» – e di abbandono fiducioso: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito». Il centurione “vede” un Dio onnipotente nel dono di sé.
Anche noi dobbiamo «metterci dalla parte “giusta” del centurione», per scorgere «in quel segno di debolezza estrema il più grande amore di Dio per noi». E come gli altri «presso la Croce»: Maria, le donne, il discepolo amato, Giuseppe d’Arimatea, dobbiamo sostare sotto la Croce delle persone contagiate, dei medici, dei volontari, degli infermieri, delle forze dell’ordine e di tutti quelli che servono con coraggio la collettività. Perché «il trono di Cesare passa, la cattedra delle Croce resta».
Ma più di ogni altro dobbiamo valorizzare il giorno da sempre trascurato del Triduo, il Sabato Santo, per fuggire «la tentazione di considerare la pandemia una semplice parentesi». «Non andiamo subito dal Venerdì alla Domenica», dice il vescovo a quanti vorrebbero «uscire subito» da questo tempo, perché il “Sabato”, quel giorno compreso tra il Venerdì e l’Alba di risurrezione, è un «passaggio necessario» per imparare la lezione di questo lungo anno di emergenza: la terra tace, il Re dorme.
E’ il giorno della «passività preziosa» del Signore, che si lascia inchiodare sulla Croce, deporre e avvolgere in un lenzuolo, e seppellire sotto una pietra tombale. E’ quanto accade a tutti: altri ci mettono al mondo, ci educano e nutrono, fino a consegnare il nostro corpo alla terra.
La pandemia del resto l’abbiamo subita, e ha arrestato un colpo fatale alla presunzione di onnipotenza dell’uomo contemporaneo di farsi Dio.
Perciò «non possiamo considerarla una parentesi». Sarebbe «pura illusione»: essa è «una prova per crescere, un tempo da cui lasciarci ammaestrare» e «arrivare bene alla speranza della Domenica, il giorno più bello, perché senza la Resurrezione a nulla serve la nostra fede».
Solo in questo modo saremo in grado di capire fino in fondo che «il Vangelo è differente», e porta la «novità» più importante della storia: Dio capovolge il giudizio del mondo. Lo scartato Gesù, colui che il mondo ha giudicato insignificante, è risuscitato dai morti ed è la pietra angolare della storia.
Infine, l’augurio di saper «perseverare sotto la Croce e sostare nel sepolcro», con la certezza che «anche nel deserto nascono i fiori» come «nella notte più buia si manifesta la luce delle stelle».
«Stiamo nel Sabato Santo», conclude il vescovo, senza «scorciatoie» dal Venerdì alla Domenica, per morire ad un’immagine sbagliata di Dio e gustare la vera Resurrezione, perché «è inutile illudersi di prendere l’aratro da dove l’abbiamo lasciato un anno fa».