Viviamo quest’anno il tempo di Avvento, il tempo forte in preparazione alla grande festa del Natale del Signore, in un momento particolare. L’emergenza sanitaria, dovuta all’epidemia da Coronavirus, ci ha bruscamente richiamati alla realtà. Più volte, in questo periodo, mi sono fatto presente con richiami, riflessioni varie. Ora, all’inizio dell’Avvento, vorrei richiamare alcuni punti che mettono quest’esperienza singolare che stiamo vivendo in sintonia con le caratteristiche dell’Avvento.
In quella meditazione memorabile della sera del 27 marzo in Piazza San Pietro Papa Francesco disse, tra l’altro: «Pensavamo di vivere sani in un mondo malato». Sì, come era possibile andare avanti e pensare di essere immuni dagli sconvolgimenti che noi uomini abbiamo inferto all’ambiente? Certamente questa epidemia è direttamente connessa con l’inquinamento dell’ambiente; essa è la conseguenza degli sconvolgimenti degli ecosistemi e degli equilibri sui quali si fonda la nostra convivenza con l’ambiente. Col senno di poi, davvero come potevamo pensare di vivere sani in un mondo malato? In questo tempo di Avvento avvertiamo in modo particolare il bisogno di “invocare”; il tempo di Avvento è tempo di invocazione: «Signore, non ti importa che moriamo? Svegliati, perché dormi? Fino a quando…?» È questa, tratta dai Salmi, la preghiera tipica dell’Avvento. Insieme all’altra preghiera, la più antica preghiera dei cristiani, il grido con il quale si chiude la Bibbia: «Maranatha, vieni Signore!».
Ecco l’altra caratteristica dell’Avvento che trova riscontro particolare nel tempo in cui viviamo: “Vieni Signore, abbiamo bisogno di Te, da soli non possiamo farcela, solo Tu ci puoi salvare”. Stiamo sperimentando, infatti, la nostra radicale impotenza. Siamo da mesi in balia dei contagi, tutto è fermo; lo dico con grande rispetto, ma stiamo sperimentando anche la debolezza della scienza medica. Parlo per assurdo: ci stiamo difendendo dall’epidemia, in fondo, con gli stessi mezzi con cui gli antichi e i nostri padri si difendevano dalla peste o dal colera: igienizzazione, distanziamento fisico, quarantena. Ci dicono che dobbiamo attendere il vaccino per superare, speriamo, l’epidemia. Questo tempo fa emergere davvero il grido, il bisogno. Con particolare forza ripetiamo con Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!». Questo tempo ha fatto emergere che siamo esseri bisognosi, ci fa fare l’esperienza del “bisogno”. Anche noi, uomini e donne del terzo millennio, abbiamo “bisogno”, sperimentiamo la fame (oggi, particolarmente, la fame di aria, come sperimentano tanti malati), il bisogno di salute, di consolazione, di amore. Eppure noi non vogliamo essere creature che hanno un bisogno; dire “ho bisogno di te”, significa dire “io dipendo da te”, e noi non vogliamo dipendere da nessuno, siamo gelosi della nostra autonomia. Lo esprime molto bene la consuetudine di fare i selfie: prima si chiedeva ad un passante o un amico di farci una foto, non potevamo farcela da soli. Oggi no, possiamo farci il selfie. Questa parolina inglese esprime bene questa esigenza di indipendenza, di “fai da te”: parliamo, infatti, di self-service, self-control, “self-made-man” (l’uomo che si è fatto da sé). L’Avvento, in particolare sintonia con questo tempo di epidemia, ci fa prendere consapevolezza del nostro limite, della nostra fragilità, della nostra radicale incapacità a darci salvezza.
Ma avvertire il bisogno non è sufficiente; rivolgersi, perché prigionieri della nostra impotenza, a Dio, non è sufficiente. Potrebbe trattarsi di un dio falso, il dio “tappabuchi” che interviene trionfante sulle miserie umane. E questo non è il Dio di Gesù. Proviamo a dare un volto a quel “bisogno”: bisogno di che? E qui entra in campo la parola chiave della nostra fede: abbiamo bisogno di salvezza, ci serve un “Salvatore”. Anche in questo caso questo tempo di epidemia può essere un’opportunità: riscoprire la parola e la realtà della “salvezza” o, meglio, di un Salvatore. L’uomo emancipato dell’epoca moderna, quella delle macchine, dei robot, della tecnologia avanzata, non attendeva salvezza; e poi, salvezza da chi, da che cosa? E in questo contesto, purtroppo, anche la fede cristiana spesso è stata mondanizzata e si è ridotta a mero umanesimo. Tuttalpiù, abbiamo atteso salvezza dalle macchine, da una tecnologia sempre più sofisticata, oppure dalla natura (vedi il ricorso all’ecologia, al biologico, ecc.) oppure dal mondo dell’occulto (anche l’uomo del XXI secolo ricorre alla magia e, paradossalmente, in Italia le città dove più numerosi sono i presunti “maghi” non sono le “arretrate” città del Sud ma sono le civili e razionali Metropoli del Nord).
Riscopriamo, così, l’importanza del bisogno di uno che viene a salvarci, di un Altro che viene dal di fuori, perché solo un Dio ci può salvare. Esalvare da un male più antico e radicale che la fede chiama con un nome preciso: peccato. Lasciamoci salvare da Gesù. In questo ultimo periodo, si sta usando un’espressione che fa riflettere. Si dice che siano state adottate misure più restrittive non solo per limitare i contagi ma per “salvare il Natale”. Si rifletta bene: salvare il Natale? Ma di quale Natale si tratta? Evidentemente del Natale dei consumi! Mi chiedo: salvare il Natale o lasciarsi salvare dal Natale? È la nascita del Signore, la visita salvifica di Dio nella storia, la nascita del Dio-con-noi, è questa che ci salva, altroché salvare il Natale!
Attendiamo con speranza il vaccino che sconfigga l’epidemia, viviamo questa attesa insieme con l’altra, più radicale, Attesa del Salvatore.
«Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
Antonio di Donna
Vescovo di Acerra