Dal primo agosto scorso, la prossima visita pastorale del vescovo alla diocesi di Acerra, alla cui preparazione il presule dedica il convegno ecclesiale dal 7 al 9 settembre 2018, ha il suo protettore, lo stesso che dal 30 settembre 1964, per decreto di Paolo VI su richiesta dell’allora vescovo monsignor Nicola Capasso, è “principale e celeste patrono presso Dio di tutta la diocesi di Acerra”.
PATRONO DI UNITA’
Per questo, dice il vescovo, “ci ritroviamo qui stasera come Chiesa di Acerra”. La Chiesa di san Nicola Magno a Santa Maria a Vico è piena di fedeli “più forti del caldo e del clima di evasione di questi giorni del periodo estivo”, si compiace monsignor Antonio Di Donna che presiede la solenne celebrazione eucaristica in onore di sant’Alfonso, la cui ricorrenza cade il primo giorno del tradizionale mese delle vacanze. Con lui una parte del presbiterio diocesano – sacerdoti che con “sensibilità ecclesiale” sono “convenuti per dare maggiore solennità a questo momento”, dice il vescovo – , diaconi e seminaristi. Nel giorno della festa del santo patrono, il presule chiede a tutti una più “convinta appartenenza” all’unica Chiesa locale, resa visibile per l’occasione in una delle due parti della diocesi, che dal 1854 si configura con al centro la città episcopale di Acerra e le due parrocchie di Licignano, a cui si aggiungono le città della valle di Suessola di cui fa parte Santa Maria a Vico. Don Carmine Pirozzi, “parroco di questa bella comunità che ci ospita”, e che in questi giorni celebra contemporaneamente la festa del patrono parrocchiale san Nicola – ai fianchi dell’altare campeggiano le statue dei due santi – si dice “commosso” per la celebrazione in questi “luoghi che parlano” di sant’Alfonso. E monsignor Di Donna chiarisce: “Ogni anno intendo valorizzare questa festa, e dopo alcune volte ad Arienzo, dove sant’Alfonso ha dimorato e dove si trova il suo episcopio, nel 2018 ho pensato di recarmi a san Nicola Magno, in questa bella chiesa costruita proprio da sant’Alfonso nel 1763 e della quale ricorrono i 255 anni dalla costruzione”. L’amore di monsignor Di Donna per il santo vescovo e dottore della Chiesa non è un mistero. Al “più napoletano dei santi e più santo dei napoletani” – nato nel quartiere Sanità a Napoli alla fine del ‘600 e morto a Pagani vicino Salerno, al termine del ‘700 – il vescovo di Acerra dedica la sua prima lettera pastorale “In dialogo con sant’Alfonso”, che invita “in questo giorno a riprendere in mano e rileggere – è semplice, scorrevole e veloce – per ricordare questo grande santo”. Nei primi banchi della Chiesa c’è il sindaco di Santa Maria a Vico, Andrea Pirozzi.
SANTO DEI TEMPI MODERNI
Tra le invocazioni al santo patrono, quest’anno monsignor Di Donna affida la prossima visita pastorale alle parrocchie. E se “lo scopo principale delle visite deve essere la riforma dei parroci”, dice monsignor Di Donna leggendo appunti dai documenti che parlano delle visite di sant’Alfonso, il rinnovamento non può che passare da due strade: “la passione della missione” e la capacità di farsi autentico “maestro morale” sulla scia di questo ”genio della santità”, il cui “spessore ha attraversato tutto il ‘700”, ha attraversato cioè l’intero secolo dei lumi, confrontandosi con la nuova corrente di pensiero dell’illuminismo, fino a diventare per i tempi moderni quello che Agostino ha rappresentato per i tempi antichi e Tommaso D’Aquino per la scolastica nel Medioevo. In poche parole, sant’Alfonso “ha tradotto la fede cristiana nei tempi moderni, prendendo dal secolo di lumi il giusto e rigettando quanto non si conciliava con la fede”, aggiunge monsignor Di Donna, per il quale il “patrono dei confessori” Alfonso è stato “colui che ha difeso soprattutto nelle nostre terre dell’Italia Meridionale, la fede del popolo dal rigorismo del pensiero giansenista”. Non a caso “i nostri padri e le nostre nonne si sono formati per generazioni” sulle “opere di pietà” di questa “personalità eccezionale” – Alfonso era teologo, pastore, missionario, compositore di canti, scrittore, pittore dotato di grande umorismo -, sulla “Pratica di amare Gesù Cristo”, fino ai suoi “canti popolari, che hanno tradotto in lingua napoletana i misteri della fede”.
Lo “zelo pastorale” e la capacità di farsi prossimo alla gente di Alfonso trovano spiegazione nella parola di Dio del giorno: “la missione del profeta Isaia” della prima lettura – “Lo spirito del Signore è su di me, mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri” – chiarisce l’”ardore apostolico” del santo, dice ancora il vescovo; mentre “lo sguardo di compassione di Gesù sulle folle, pecore senza pastore – di cui parla il vangelo di stasera”, e da cui hanno origine i “gesti missionari”, la predicazione del Regno e i segni che l’accompagnano” – è lo stesso che muove Alfonso facendo giungere il suo esempio a noi come “modello nuovissimo di vita cristiana”, frutto di “un Dio che fa sempre cose nuove e non si ripete mai”.
NUOVO NELLA MISSIONE
La missione è uno dei “due aspetti attualissimi di questo gigante della fede, modello nuovo che il Signore ha dato alla sua Chiesa”, che il vescovo sottolinea il primo agosto nella Chiesa di san Nicola a Santa Maria a Vico.
Evangelizzazione dei poveri. Sant’Alfonso è un modello “nuovo nella predicazione e nelle strategie pastorali verso i poveri e gli abbandonati, i cafoni delle terre interne della Campania”, perché vuole che siano essi a diventare santi, come “Andrea o verdummar”; e che “non guarda dall’alto della sua cultura, ma con lo sguardo di compassione di Gesù di cui parla il Vangelo di stasera”, ha detto ancora il vescovo.
La missione è infatti “il cruccio di sant’Alfonso”, che “lasciato il foro dopo aver toccato con mano l’ingiustizia del tempo in una causa persa non per imperizia ma per corruzione dei giudici, si butta a capofitto nelle missioni popolari”, e “da giovane sacerdote va a predicare il Vangelo in mezzo alla feccia del popolo napoletano: al Lavinaro, al Porto, in mezzo ai vicoli del tempo.
Cappelle serotine. Quando al termine della vita di Alfonso, un avvocato suo amico lo va trovare da Napoli a Pagani, il santo vecchio, curvo, ormai prossimo alla morte gli chiede: “Si fanno ancora le Cappelle serotine a Napoli?” (una specie di gruppi del Vangelo da lui fondati, centri di ascolto di persone che si radunavano nelle strade, nelle case fatiscenti e puzzolenti tra i vicoli di Napoli, e lì si leggeva il Vangelo, si recitava il Rosario, si pregava); e l’amico risponde: “Sapessi quanta gente di bassa lega – povera gente – viene. Addirittura, cocchieri santi?”. A questo punto il santo loda il Signore con grande gioia ripetendo: “Cocchieri santi, cocchieri santi!”.
Nelle campagne. La missione è nel sangue di Alfonso, e quando fonda i redentoristi non vuole che vadano a predicare nelle grandi città ma nelle “periferie, nelle campagne tra i poveri e gli analfabeti abbandonati a cui nessuno pensa”, anticipando così profeticamente papa Francesco. “La missione è una passione: è lo zelo del Signore, la passione per il Regno e il Vangelo, che spinge ad andare e a non stare fermi”, insiste il vescovo esortando tutti, “a cominciare da me”, a superare “vecchi e anacronistici schematismi, legati ancora ai confini territoriali e giuridici delle parrocchie, mentre il mondo va avanti per conto suo e noi lo stiamo perdendo”. E dunque l’invito ad un “serio esame di coscienza e una verifica” chiedendo a sant’Alfonso di “aiutarci a farla bene”.
Visite pastorali. Sant’Alfonso esprime un nuovo modo di fare missione con le visite pastorali, documentate anche ad Arienzo e Santa Maria a Vico nella diocesi di Sant’Agata de’ Goti, e chiede di convertire ancora oggi anche il nostro “modo di celebrare le Messe” attraverso la “Lettera ia preti sulle Messe abborracciate” (la prima cosa che fa in diocesi), cioè celebrate male, velocemente e senza partecipare al Mistero.
NUOVO NELLA MORALE
Sant’Alfonso è “maestro di vita morale, nella guida spirituale delle anime”, e non a caso è “patrono dei confessori”. Egli anticipa nel suo nuovo modo di fare missione quel “rapporto nuovo, misericordioso con le persone ferite” che papa Francesco chiede ai nostri giorni, perché “la persona venga prima della legge e la misericordia abbia sempre il primato”. Allo stesso modo, il santo vescovo chiede ai redentoristi di fare missione “in modo differente dagli altri”. Alfonso “non ama far commuovere la gente, non ama la conversione frutto della minaccia e dei castighi di Dio, non ama una conversione del momento che nasce dalle lacrime della commozione e il giorno dopo scompare”, chiarisce monsignor Di Donna.
La “grande e attualissima novità” sta nel “far innamorare di Gesù Cristo”. Il grande santo “ha tentato di liberare la morale cristiana dal rigorismo giansenista proclamando il primato dell’amore di Dio, il primato della Grazia sulla legge e della persona sulla norma”, presentando con “la grandezza del pastore d’anime” un Cristo “piccolo ladro” rubacuori della gente.
Guardare sant’Alfonso aiuta a superare la tentazione del “lassismo e del rigorismo”. Sia il lassista che il rigorista, continua il vescovo citando papa Francesco, non sono autentici testimoni “dell’amore misericordioso che il Signore ci ha insegnato e ci chiede di esercitare”. Ambedue “non si fanno carico della persona e in modo elegante la scaricano”: il rigorista “rimanda la persona alla freddezza della legge”; il lassista “non la prende sul serio cercando di addormentarne la coscienza del peccato”.
“Solo il sacerdote misericordioso si fa carico della persona, le si fa prossimo, le si fa vicino e l’accompagna nel cammino della riconciliazione”. E citando sant’Ambrogio, Di Donna aggiunge: “Dove sta la misericordia c’è lo spirito del Signore; dove c’è la rigidità, ci siamo noi suoi ministri ma non Lui”. E dunque, “nessuno può essere condannato per sempre perché non è questa la logica del Vangelo”, mentre “il sacerdote non deve mai soggiogare, dominare la coscienza”, bensì deve “illuminarla e formarla”.
La reliquia. Sotto la statua di Sant’Alfonso è esposto durante la celebrazione eucaristica un reliquiario di legno contenete un osso del metatarso di sant’Alfonso. E’ una delle reliquie custodite ad Arienzo di cui parla monsignor Capasso nella sua lettera di richiesta a Paolo VI di dichiarare sant’Alfonso patrono della diocesi. Capasso ricorda anche l’altare di legno sul quale il santo celebrò per nove anni la Santa Messa e un reliquiario che contiene una boccetta di sangue.
Il Museo. “Dopo anni di sacrifici della diocesi e con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana, siamo finalmente alla vigilia della riapertura dell’Episcopio di Arienzo rinnovato e ristrutturato”. Monsignor Antonio Di Donna annuncia durante la celebrazione, che a settembre avvierà il cammino di preparazione della diocesi, soprattutto spirituale, per poi giungere dopo pochi mesi all’apertura dell’Episcopio di Arienzo, confidando il forte desiderio che esso “diventi un polo mussale di sant’Alfonso nel quale sia facile recarsi per pellegrini e turisti in visita ai luoghi in cui il santo ha vissuto”, magari in un “unico giro che comprenda Sant’Agata de’ Goti, Arienzo e Pagani, dove si trova il suo corpo e un museo”. Per questo progetto il presule chiede “particolare benedizione” a sant’Alfonso. Del resto, il progetto “non è mio”, svela monsignor Di Donna, ma dello stesso monsignor Capasso, “questo grande mio predecessore che già desiderava fare di Arienzo un polo museale”. L’Episcopio ristrutturato sarà naturalmente “a disposizione dei ragazzi del catechismo e dei gruppi parrocchiali”.
Un tesoro da curare. “Dobbiamo imparare a curare i nostri tesori”, esorta monsignor Di Donna a proposito di sant’Alfonso. Perché “Sant’Alfonso è un grande e noi dobbiamo essere consapevoli di avere un gigante della fede”. E’ “un tesoro da curare!”, impegnandosi ad “approfondire la sua vita, le sue opere, il suo pensiero, la sua pastorale”. E dunque, “consegno a voi questo compito”, chiosa il presule prima di una salutare provocazione: “Meritiamoci sant’Alfonso. Non facciamocelo scappare. E’ nostro e dobbiamo avere sempre grande riguardo verso di lui!”.
Vita austera. Una esistenza profondamente povera emerge da quanto monsignor Nicola Capasso, vescovo di Acerra dal 1933 al 1966 del quale nel 2018 ricorrono 50 anni dalla morte, scrive a papa Paolo
VI nel 1964 per chiedere al pontefice che sant’Alfonso fosse proclamato patrono unico della diocesi pur restando i santi Cuono e Figlio patroni della città di Acerra; richiesta che il papa accetterà “volentieri” con decreto del 30 settembre 1964. Così scrive monsignor Capasso: “Nel 1964 rivolgemmo domanda alla santa Congregazione dei riti affinché sant’Alfonso fosse proclamato patrono principale della diocesi di Acerra, avendo egli fatto dimora per nove anni nel palazzo vescovile di Arienzo che a quei tempi apparteneva alla diocesi di Sant’Agata de’ Goti. In quel palazzo egli perfezionò o scrisse molte opere: Le verità della fede, La pratica di amare Gesù Cristo (grande testo di guida delle anime, ndr), L’opera dogmatica, il trionfo della Chiesa … etc.
Ivi, ad Arienzo si mostrò padre amoroso di tutti. Viveva nella più austera povertà, un pagliericcio per letto, cibo limitato, frequenti le notti in cui dormiva a terra sul tappeto. Ai bisognosi invece mostrava tutta la sua generosità. Aveva dato ordine ai suoi dipendenti che ammettessero tutti alle sue udienze, ed è immaginabile come i poveri fossero i più numerosi. A chi pagava le medicine, a chi la pigione, a chi i debiti. Negli anni 1764/65 la diocesi fu afflitta da una grande carestia. La povera gente si cibava delle erbe delle siepi. Altri giravano per le vie chiedendo la carità, altri schiamazzavano minacciando le Autorità locali. Il santo fece distribuire tutte le provviste della sua casa, acquistò legumi e grano da paesi lontani, contrasse debiti e pignorò l’argenteria. Vendette due anelli di valore che gli erano stati regalati e la croce d’oro. Pensò di vendere anche la carrozza e i cavalli, ma suo fratello Gaetano, perché non finissero in mano ad altri, decise di comprarli lui e gliene diede il prezzo. E domandò alla Santa Sede la facoltà di ipotecare i beni del vescovado per trovar denaro per i poveri”.