L’anno appena iniziato proporrà alla nostra attenzione una serie di importanti ricorrenze, di solenni anniversari. Si è aperto, infatti, con il 70° anniversario dell’entrata in vigore della nostra preziosa Costituzione; proseguirà con il centenario della vittoria nella I guerra mondiale. Il 2018 celebrerà anche il cinquantesimo di quel benedetto ’68 che, piaccia o no, ha segnato un cambiamento epocale. Queste incalzanti ricorrenze solleciteranno la nostra facoltà di ricordare, ci interrogheranno sul significato della memoria. Esse saranno l’occasione da non perdere per recuperare la dimensione del tempo che il ritmo e i modelli relazionali attuali ci stanno facendo perdere a vantaggio di un mistificante “eterno presente”. In questa nostra quotidianità segnata dalla occasionalità, che nega ogni prospettiva, che brucia l’esistenza in ragione dell’attimo non ha cittadinanza la coscienza storica: il passato, al massimo, può soddisfare un prurito di curiosità; del futuro … neanche a parlarne! Privato di una dimensione esistenziale, il tempo non può che essere inquadrato in parametri economici con la conseguente disumanizzazione o, altrimenti detta, crisi di valori. L’esistenza, fuori dalla coscienza storica, non può essere indirizzata verso punti di orientamento certi e finisce necessariamente per assumere carattere funzionale, economico, appunto. Non deve stupire, quindi, se si diffonde, soprattutto tra i giovani ma non esclusivamente tra essi, una sempre più evidente insensibilità a richiami valoriali che generano prospettive esistenziali; la chiusura nella dimensione privata, la svogliatezza nella pratica della virtù civica non sono connotati di questa generazione più giovane bensì dell’intera nostra società. Ben vengano, allora, il Giorno della Memoria e le tante altre ricorrenze che ci richiamano ad una dimensione più umana, che ci scuotano dal torpore, dalla disumanizzazione della nostra età. Ma cosa significa “fare memoria”? Il 27 gennaio, giorno dell’accertamento dell’esistenza dei campi di stermino con l’arrivo ad Auschwitz dell’Armata Rossa, è stato scelto dall’O.N.U. come data emblematica per ricordare la Shoah. Ma perché si è definito tale ricorrenza “Giorno della Memoria” e non semplicemente “Commemorazione delle vittime della Shoah”? In questo, una volta tanto, riconosciamo merito alla sensibilità italiana! Il nostro Parlamento già nel 2000 (cinque anni prima dell’Assemblea delle Nazioni Unite) scelse questa data per richiamare l’attenzione degli Italiani sullo sterminio razziale; erano all’esame dei legislatori altre date significative per l’antisemitismo in Italia ma fu scelta la data del 27 gennaio per sollecitare gli Italiani ad andare oltre la dimensione ristretta della vicenda nazionale e fermare la riflessione sulla portata universale di quel tragico evento. Infatti non è uno specifico episodio che deve essere recuperato alla memoria ma si è voluto stimolare la riflessione sul senso stesso della natura umana. In questo caso, infatti, “fare memoria” non è una semplice operazione di ripristino di un cloud, di un’asettica archiviazione di un dato ma è trovarsi faccia a faccia con il senso dell’essere uomini. Il ritrovarsi di fronte gli orrori più impensabili ma pur programmati con estremo rigore efficientista non può risolversi in una questione puramente conoscitiva. Quelle efferatezze e il perverso pensiero che le generava interrogano con pesanti domande la coscienza di ognuno. In questa ricorrenza si avverte lo smarrimento, l’incapacità a dare una risposta razionale a quei comportamenti, a quella ideologia. È questa dimensione esistenziale a esprimere il senso più vero, più autentico di questa riscoperta della memoria. Nel prendere le distanze, anche solo sul piano emozionale, da quella vicenda riscopriamo la nostra più vera dimensione che non si esaurisce nelle nostre azioni ma si proietta in ambiti nei quali ci muoviamo con difficoltà, appunto. Riscopriamo il sacro, che nella fede religiosa ha un ben preciso connotato ma che ha un profondo valore anche per il pensiero laico. Infatti solo in questa dimensione universale, non definibile con i parametri della quotidianità, è possibile orientare la propria vita, darle senso. Solo ponendoci le domande sul perché di tanta ferocia, sulla possibilità di una capacità di pensiero così disumana, sul “silenzio di Dio” di fronte all’impunita realizzazione di tale spietato, dissacrante progetto noi recuperiamo la coscienza della nostra umanità, della nostra libertà. Solo così agganciamo la nostra quotidianità al senso vero della vita, liberandoci da superficialità, rozzezze, sviamenti. Quest’anno il Giorno della Memoria, qui in Italia, si somma alla ricorrenza dell’80° anniversario della emanazione della leggi razziali. Esse furono, appunto, la logica conseguenza dell’ideologia fascista che, come in tutti i totalitarismi, asserviva l’uomo a schemi ideologici che non lasciavano spazio alla libertà, che costringevano la quotidianità nell’orizzonte predefinito del mantenimento del regime facista. Esse colpirono tra gli altri due importanti personaggi di quell’ambito della vita che più di ogni altro si associa alla spensieratezza, alla voglia di vivere: lo sport. Quest’anno, insieme all’Associazione “Eidos”, la Diocesi di Acerra ha voluto celebrare il Giorno della Memoria ricordando la vicenda di due allenatori di calcio ungheresi di origine ebraica che hanno legato il loro nome a importanti squadre di serie A: Weisz e Erbstein. Arpad Weisz fu allenatore dell’Inter (allora si chiamava Ambrosiana), lanciò il fuoriclasse Meazza, fu il più giovane allenatore a vincere uno scudetto (record ancora imbattuto), allenò il grande Bologna (“che tremare il mondo fa”) ma dovette lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali e, deportato dall’Olanda, finì in un forno crematorio di Auschwitz. Ernö Erbstein fu invece mitico allenatore della Lucchese e poi del Grande Torino. Dovette lasciare la guida del Toro per quelle leggi razziali e, ritornato a Budapest, stava per essere deportato in un campo di concentramento ma fu salvato da Carl Lutz. Questi era l’ambasciatore svizzero che partecipava a quell’operazione di salvataggio di ebrei ungheresi ideata dai diplomatici presenti a Budapest nel 1944 e che vide in prima linea l’acerrano mons. Verolino. Ritornato alla guida del Torino, morì nello schianto di Superga. La vicenda di queste persone che forse non pensavano di doversi confrontare con questioni politiche ed ideologiche di tale portata, che frequentavano la scena internazionale usando il linguaggio universale del gesto atletico mostra quanto pervasive sono le ideologie, quanto sia facile snaturare la quotidianità della vicenda umana. La Shoah ci ricorda che ogni qualvolta che si perde di vista la sacralità dell’umanità, ogni qualvolta si banalizza l’esperienza di vita accantonando ogni valore si lascia spazio a farneticazioni che offendono la dignità dell’uomo e non salvano alcuna espressione della vita. Le voci scomposte che si sentono in questi nostri giorni, il montare della violenza nella società riportataci dalla cronaca, i rigurgiti di ideologie razziali e neofasciste dovrebbero far riflettere, almeno in questo giorno. Gennaro Niola Il libro Arpad ed EgriDi Angelo Amato de Serpis Un approccio meno pesante ma non superficiale alla tragedia della Shoah è proposto dal libro scritto dal nolano Angelo Amato de Serpis. Egli propone al lettore le figure di due importanti allenatori ungheresi e di origine ebraica che hanno lasciato una duratura impronta nel calcio italiano ma che sono stati travolti dalle leggi razziali dell’Italia fascista e dalla Shoah.Arpad Weisz e Erno Erbstein (Egri) sono due personaggi di un calcio di altri tempi; due signori del “pallone”, che, al di là di quelle vicende tragiche, ai più anziani fanno riassaporare un ambiente sportivo più sano, più vero.Il libro ricostruisce separatamente la storia di questi due personaggi accomunati dalla nazionalità ungherese (“danubiani”, erano definiti i tanti calciatori che provenivano dall’Est europeo) e dall’origine ebraica.Negli anni ’20, Arpad Weisz era stato calciatore nel Padova e, poi, per un infortunio al ginocchio, si ripropose come allenatore nel mondo calcistico. Le sue doti lo portarono presto alla guida di squadre di serie A. Allenò l’Ambrosiana (l’attuale Inter) e con essa vinse uno scudetto; aveva solo 34 anni; mai più un allenatore così giovane ha vinto il campionato di serie A. Alla guida del Bologna, della quale si diceva che “tremare il mondo fa”, vinse altri due scudetti e a Parigi l’importante Torneo dell’Esposizione Universale battendo il Chelsea per 4 a 1, la prima volta che una squadra italiana incontrava formazioni inglesi e, per giunta, vinceva nettamente. Non valsero queste sue credenziali; non valse che era stato lo scopritore di Meazza, il beniamino del calcio italiano, la bandiera propagandistica del regime; non valse che era stato l’autore del primo manuale di tattica calcistica, ancora valido ai nostri giorni; non valse che aveva fatto battezzare i suoi due figli; dovette piegarsi di fronte all’idiozia delle leggi razziali. Provò a sottrarsi espatriando in Francia e poi in Olanda ma finì nelle mani dei nazisti che invasero quei Paesi. Fu deportato ad Auschwitz dove ottenne lo stesso trattamento riservato agli ebrei: sfruttato come manodopera e poi ucciso con il gas e cremato.Erno Erbstein, invece, dopo una carriera di giocatore in giro per il mondo, divenne allenatore di squadre italiane di serie minore; allenò la Nocerina, il Fidelis Andria, ma anche il Bari ed il Cagliari. Acquisì fama portando la Lucchese dalla serie C al settimo posto in serie A. Il Torino lo volle come guida e subito si fece apprezzare chiudendo il campionato alle spalle del formidabile Bologna. Per sottrarlo alla discriminazione razziale decretata dal fascismo, il presidente del Torino, Pozzo, lo fece ritornare in Ungheria con un rocambolesco viaggio. Nel 1944, a Budapest fu rastrellato dalle “Croci Frecciate” ma si salvò dalla deportazione grazie all’intervento di Carl Lutz, ambasciatore della Svizzera, che insieme a Verolino ed agli altri diplomatici presenti si prodigò per il salvataggio di oltre 20.000 ebrei. Dopo la guerra, ritornò alla guida del Torino, che era diventato il “Grande Torino”, vinse lo scudetto ma, con i suoi giocatori, morì nell’incidente aereo di Superga. La sua figura dovrebbe essere particolarmente cara a noi acerrani sia perché la sua vicenda incrociò l’azione di quel grande spirito acerrano che fu mons. Verolino che si meritò il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” sia perché Erbstein, con il suo Torino giocò ad Acerra e tanto fu il legame con la città che da quella partita l’Acerrana divenne squadra gemella ereditando i colori sociali (il granata) e lo stesso simbolo: il Toro.Il libro di Amato de Serpis non si limita a una semplice ricostruzione della carriera calcistica di questi due grandi esponenti del calcio italiano ma riesce a far emergere lo spessore umano di ciascuno di loro e a dare una percezione chiara della insensatezza e della crudeltà di scelte ideologiche che hanno procurato solo dolori, tragedie, disumanità.Come scrive l’avv. Campana nella prefazione, c’è da augurarsi che, anche grazie a questo libro, si “rinnovi il messaggio di amore testimoniato da queste vite che deve essere raccolto per ricordare a noi tutti ed ai giovani che lo sport è vita, che lo sport è amore, che l’amore aiuta a vivere”. G.N.
La Shoah … nel pallone
Per salvarci dalla banalità
Sabato 27 gennaio alle 19.00 presso il Museo in Piazza Duomo, la Chiesa di Acerra celebra il Giorno della Memoria. Intervengono il vescovo Antonio Di Donna, il sindaco Raffaele Lettieri, il direttore Ufficio diocesano beni culturali, Gennaro Niola. Durante la serata, presentazione della storia di due allenatori di calcio ungheresi perseguitati, raccontata nel libro “Arpad ed Egri”, scritto da Angelo Amato De Serpis. La riflessione di Gennaro Niola.