Imparare la fede nelle viscere della terra

La grande lezione di quei minatori cileni a meno 700 metri nel deserto di Atacama

Ce l’hanno fatta i 33 uomini sepolti vivi per oltre due mesi nella miniera San Josè, a Copiapò, nel Cile del Nord. Un’intera nazione ha esultato per il loro salvataggio. Le famiglie si sono sciolte in lacrime davanti alle telecamere di tutto il mondo. Il presidente Sebastian Piñera li ha aspettati ed abbracciati, uno per uno, insieme ai loro cari. I vescovi cileni hanno parlato in una Nota di effusione di gratitudine e gioia, «quell’atteggiamento naturale e fondamentale a partire dal quale noi cristiani siamo chiamati a comunicare ovunque il dono del nostro incontro con Gesù Cristo». Tutti ci siamo commossi, incollati per due giorni ai canali internazionali che trasmettevano la diretta. «Abbiamo vissuto un’esperienza unica, difficile da descrivere, spiritualmente molto intensa. La presenza di Dio si è manifestata in molti modi a La Esperanza (l’accampamento dei familiari sopra la miniera, ndr): attraverso l’abilità dei tecnici, la velocità degli ingegneri, la testardaggine delle autorità nel continuare a scavare anche quando le possibilità di recuperare i minatori vivi sembravano scarse. La cosa più straordinaria è stata, però, la forza interiore dimostrata dai 33 e dalle loro famiglie. Persone in maggioranza umili, lavoratori, che hanno avuto il coraggio di sperare anche quando tutto sembrava perduto. Il loro è un grande insegnamento» – così monsignor Gaspar Quintana Jorquera, vescovo della diocesi di Copiapò, dove si trova la cava San Josè. «L’intera vicenda – ha detto ancora monsignor Quintana – ci ha mostrato l’efficacia della solidarietà. Sono le divisioni, gli scontri, gli odi a indebolirci. La solidarietà ci rende forti, capaci di realizzare insieme anche obiettivi apparentemente impossibili». Non a caso, i minatori cileni non solo erano vivi, ma in un primo contatto hanno chiesto che cosa fosse accaduto ad altri lavoratori che erano nella miniera al momento del crollo. La Conferenza episcopale cilena ha definito «una giornata di Pasqua» il salvataggio dei 33 minatori, i quali sono usciti dalla miniera indossando tutti una maglietta con scritto sul davanti «Grazie Signore!» e sul retro un versetto biblico. Lo stesso presidente Piñera ha più volte ripetuto il nome di Dio nelle varie interviste. Il segno della croce e la preghiera sono state la costante del campo La Esperanza durante tutto il tempo dell’operazione «San Lorenzo», com’è stato battezzato il recupero in omaggio al diacono e martire, patrono dei minatori. L’immagine della Madonna della Candelaria, il cui santuario si trova a Copiapò, ha presieduto accanto alla miniera tutte le tappe dell’odissea dei lavoratori. Lo stesso vescovo è stato per 70 giorni accanto ai familiari e ha celebrato l’Eucarestia ogni domenica pomeriggio nel campo. In una piazza della capitale Santiago del Cile, mentre un video mandava in onda le operazioni di salvataggio, il cardinale Erràzuriz ha presieduto una messa con altri vescovi e sacerdoti.
Mario Sepulveda, uno dei primi minatori a tornare alla luce, quando lo hanno tirato fuori ha detto: «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi ed ha vinto Dio. Io ho preso la sua mano, la migliore. Egli mi ha afferrato. Non ha mai vacillato in me la certezza che Dio mi avrebbe tirato fuori». Come a dire: ero nel ventre della terra, nel buio, ma Dio mi ha strappato da là, la vita più forte del nulla. E a pronunciare queste parole non un fine teologo, ma uno sconosciuto lavoratore del Cile profondo, che non conosce filosofia e letteratura. Non un cardinale, un vescovo o un parroco, ma un uomo apparentemente rude, barba, occhi e capelli nerissimi, di mestiere minatore, stretto tra moglie e figli. Barbara Sartori, su Avvenire, ha definito la sua lezione «un’antifona pasquale». Il teologo che non ti aspetti – ha scritto la giornalista – ha fatto con le sue parole, magari senza saperlo, «la traduzione esatta di una delle più belle ‘Antifone’ della Chiesa, quella alla ‘Vittima pasquale’, che così recita: ‘Morse et Vita duello conflixere mirando: Dux vitae mortuus regnat vivus’; ‘Morte e Vita si sono affrontate in un duello mai visto, il Signore della Vita, che era morto, regna: Vivo’». Marina Corradi, sempre su Avvenire ha scritto: «Attorno alla miniera cilena s’è creata una partecipazione, e anche una preghiera, che non s’è vista in disgrazie ben più grandi, in catastrofi che hanno messo in ginocchio interi Paesi. Ma il fatto è che a Copiapò, 700 metri sotto terra, respirava una speranza. Già dati per morti, i 33 minatori erano vivi e decisi a vivere. Metafora trasparente: nel fondo del buio, nella peggiore delle realtà possibili, si può tuttavia sperare, aiutarsi, e infine tornare a vedere la luce. Quanti, senza accorgersene pienamente, hanno intravisto nel dramma cileno una simmetria con il proprio possibile buio di solitudine o malattia fatica, e hanno vegliato sul destino di quegli sconosciuti, ancora questa notte. Come se anche noi confusamente attendessimo di nascere. Di uscire dal buio. Con gli anni, con il peso affaticato dei giorni, questa segreta indicibile ansia di potere in qualche modo rinascere altri, trasformati». I vescovi cileni hanno pregato perché «questa vita, che per loro sarà una nuova vita che comincia, conti in ogni momento sulla benedizione di Dio. Che sia una vita di famiglia, molto felice». Tony Capuozzo, giornalista del Tg 5 che ha trascorso una settimana presso la miniera San José, ha dichiarato in un’intervista che «non si possono fare i conti con questa storia senza imbattersi in una grande manifestazione di fede, di speranza, di convinzione nella gente che la tecnologia e la volontà degli uomini possono fare moltissimo, ma non tutto. E allora, come a San José, quello che ti accompagna è la fede. Fin dai gesti più semplici. E’ impossibile raccontare questa grande storia solo come un’avventura semplicemente umana e di tecnologia, perché dappertutto, nell’accampamento, c’è sempre qualcosa che rimanda alla fede degli uomini». A Copiapò, insomma, si respirava una fede grande «sia sopra la terra che sotto». Questa storia ci ha mostrato uomini simbolo che hanno le qualità meno apprezzate: lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, la sobrietà. Persone solide, forti, concrete come il lavoro che fanno, che vogliono restare coi piedi per terra. Uomini che hanno dimostrato una tenuta fuori dal comune, coraggio e generosità.
Ma da dove veniva quella speranza? Quell’animo saldo, quella semplice e tenace fiducia? La nostra speranza è troppe volte un oscuro affidamento al fato, uno ‘speriamo bene’ scaramantico, per allontanare i cattivi pensieri. La speranza non esiste se non si fonda su una certezza. Come quella di quel teologo-minatore, Mario Sepulveda, il più tosto, quello che teneva i contatti con la terra di sopra, e forse col Cielo. Quello che, si è capito, tutti hanno riconosciuto come guida autorevole e capace di confortare, organizzare, dare la carica. Un testimone, che sapeva dare certezze, perché lo sappiamo, abbiamo bisogno sempre, ma qualche volta di più, di una mano che ci tiene per mano, una guida che ci aiuta a brancolare nel buio. Le sue parole sono un pungolo per tutti e per ciascuno. Perché è di tutti la lotta col diavolo, la possibilità di dire si o no a Dio, e fondare su di Lui la nostra speranza.
E poi il popolo cileno: la gente prega, spera, si commuove e lavora con te. Un popolo è così, una comunità è così, non si distrae, non ti corre accanto distratta, indifferente, ti si fa intorno, si china su quel buco perché tu sappia che ti si vuol bene. «Possiamo storcere il naso per la loro fede semplice, ma quello è un popolo cileno» (Monica Mondo, giornalista di Tv 2000).
E poi ancora i mezzi di comunicazione. Finalmente una delle storie più belle che a un giornalista possa capitare di raccontare. Una storia che risponde a un intimo bisogno, ad una sete di buone notizie. Non di soft news o di frivolezze, ma di un dramma che si volge a buona notizia. E’ quello che si aspetta dalla vita. «Tutto il mondo voleva sapere, voleva vedere, essere lì. Ci siamo sentiti tutti padri, madri, sorelle e figli di quegli uomini. Volevamo vederli uscire uno ad uno, conoscerli. Senza analisi, senza dibattiti. Lasciarci commuovere. Muovere la nostra testa e il cuore, per una volta, alla grandezza degli uomini, che sa stupire» (Monica Mondo, ilsussidiario.net). Di fronte ad un panorama di morte, dall’orribile delitto di Avetrana, con gli sconfortanti talk show che ancora seguono con ottusa e disumana petulanza quella tragedia, alla violenza cieca dei tifosi serbi a Genova, e ai non meno ciechi omicidi, o quasi, di Roma e Milano, «il miracolo che ci ha regalato in questi giorni un intero Paese, il Cile, è così chiaro che tutto questo non conta: perché queste sono le mille facce dello stesso diavolo con cui Dio combatte, ogni giorno, nel tempo che si fa storia ed è cronaca. Combatte, in ‘mirabile’, sorprendente, duello» (Barbara Sartori, Avvenire).
Un altro giornalista, Antonio Socci, ha scritto: «Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi le mani di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e Lui ha pietà di noi perché è Padre» (Libero).
Come il minatore Sepulveda ci insegna, ciò che conta è essere afferrati da Dio.
Dagli uomini della miniera si capisce che è bello amare Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.
Per questo siamo debitori verso i 33 minatori cileni di una splendida, illuminante lezione di teologia della Resurrezione. Che esce dalla bocca di un uomo di tutti i giorni, di uno tornato dalla morte. «Perché la verità c’è e splende, quando vuole, come vuole, con la forza che ha solo Nostro Signore, che è il Signore della Vita» (Barbara Sartori, Avvenire).
Quei minatori tornati alla vita ci mettono in guardia dall’imborghesimento dell’anima, dal mondo finto della televisione, dai salotti e dai moralismi farisaici. Ci dicono cosa vale nella vita (non i soldi) e che essere se stessi è il vero tesoro.
E allora ti succede che, mentre stai recitando le preghiere della sera, tua figlia ti chieda di metterti con lei in ginocchio sulla nuda terra, proprio come quei minatori visti il giorno prima alla tv, restituiti alla vita dalle viscere del mondo.
 
Antonio Pintauro