«Il racconto della passione del Signore» senza la risurrezione rischia anche oggi di essere «incomprensibile» perciò «croce e risurrezione» vanno sempre insieme perché «è il cuore della nostra fede». Il vescovo Antonio Di Donna ha presieduto la celebrazione della domenica delle palme nella Cattedrale di Acerra, al termine della quale ha esortato tutti a «vivere bene, senza dissipazione, i grandi eventi di questa settimana». In particolare, Di Donna ha invitato il popolo a prendere parte all’«azione liturgica della morte del Signore, la liturgia cioè che ripresenta il mistero del Cristo Crocifisso». Essa «si celebra alle 15 del venerdì santo in tutte le chiese del mondo», ed «è una cosa diversa», ci ha tenuto a precisare il presule, «dalla sacra rappresentazione» che tradizionalmente va in scena per le strade di Acerra. Il vescovo ha richiamato la bellezza e l’importanza del giovedì santo: la Messa del Crisma con tutti i sacerdoti, al mattino, e la Messa della cena del Signore, con la lavanda dei piedi, la sera. Ma, più di tutte, Di Donna ha parlato della «grande notte» di sabato sera, la veglia di Pasqua, «madre di tutte le veglie», per sant’Agostino, secondo il quale «chi non la vive almeno una volta nella vita perde il 90 per cento dell’esperienza cristiana». «Assaporate e gustate la bellezza di questi giorni, in particolare vivete intensamente questa esperienza forte della notte di sabato, che ogni anno la Chiesa ci fa fare», ha esortato il vescovo, perché si tratta di un’esperienza capace di donare «la gioia della risurrezione» e almeno «una volta all’anno» bisogna viverla.
Di Donna ha indicato il «centurione romano» ai piedi della Croce come modello a cui ispirarsi per vivere bene questi giorni: «Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39).
Il racconto della passione è infatti difficile da comprendere, soprattutto da vivere. Non a caso, Gesù è incompreso da tutti: dalle «autorità religiose», che lo ritengono «un bestemmiatore»; dalle autorità politiche, Pilato lo accusa di essere «sobillatore, sacrificando la verità al consenso»; dalle «folle», che «cercano miracoli e seguono gli umori del momento». Tutti sono «uniti» nel non riconoscere Gesù, «scaricandosi le responsabilità» gli uni sugli altri. Gesù rimane tremendamente solo: anche «la malavita», rappresentata dai ladroni, «considera la Croce stoltezza e debolezza».
Ma il rischio di «non comprendere il Vangelo della Croce» è reale pure per noi oggi, ha ammonito Di Donna, abituati ad «un modo di pensare comune» fondato su «profitto, efficienza, forza e salute» e quindi «lontano dal vedere la salvezza in un Crocifisso». La stessa «comunità cristiana, se non prende sul serio l’andare dietro a Gesù finisce per vedere la Croce come semplice segno di una generica sofferenza umana e non del dolore, a volte anche la persecuzione, che deriva dal dirsi ed essere cristiani».
«L’unico che ha visto giusto» è proprio il centurione, «figura che balza all’improvviso sulla scena al termine del racconto», ma che ci tramanda «la professione di fede più grande e importante», segnando il «momento più alto» del Vangelo di Marco. «Una professione di fede», ha detto il vescovo, «più grande di quella di Pietro».
Ma cosa vede il centurione – uomo col cuore scolpito dalla «legge dura della vita», incaricato di eseguire le condanne a morte per crocifissione e abituato a sentire la disperazione e il desiderio di vendetta dei condannati – per compiere una così grande professione di fede? «Egli non vede miracoli o prodigi», ha detto il vescovo, «ma un uomo torturato che sta per morire come tanti altri». Eppure, ha insistito il presule, si accorge di un «Crocifisso diverso dagli altri», che «non si dispera», «non invoca vendetta», bensì «si affida al Padre chiedendo perdono per i suoi persecutori». Vede, cioè, «la potenza dell’amore che dona la vita, un Crocifisso speciale, non uguale agli altri». E capisce che «solo Dio muore così ed è capace di arrivare fino a questo punto», ha ancora detto Di Donna con un invito finale: «Cari amici, mettiamoci anche noi dalla parte di questo centurione, di questo soldato pagano, l’unico che ha visto giusto, per riconoscere la potenza dell’amore che risorge, la gloria della Croce, sola bellezza che salva il mondo».
Di Donna ha indicato il «centurione romano» ai piedi della Croce come modello a cui ispirarsi per vivere bene questi giorni: «Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39).
Il racconto della passione è infatti difficile da comprendere, soprattutto da vivere. Non a caso, Gesù è incompreso da tutti: dalle «autorità religiose», che lo ritengono «un bestemmiatore»; dalle autorità politiche, Pilato lo accusa di essere «sobillatore, sacrificando la verità al consenso»; dalle «folle», che «cercano miracoli e seguono gli umori del momento». Tutti sono «uniti» nel non riconoscere Gesù, «scaricandosi le responsabilità» gli uni sugli altri. Gesù rimane tremendamente solo: anche «la malavita», rappresentata dai ladroni, «considera la Croce stoltezza e debolezza».
Ma il rischio di «non comprendere il Vangelo della Croce» è reale pure per noi oggi, ha ammonito Di Donna, abituati ad «un modo di pensare comune» fondato su «profitto, efficienza, forza e salute» e quindi «lontano dal vedere la salvezza in un Crocifisso». La stessa «comunità cristiana, se non prende sul serio l’andare dietro a Gesù finisce per vedere la Croce come semplice segno di una generica sofferenza umana e non del dolore, a volte anche la persecuzione, che deriva dal dirsi ed essere cristiani».
«L’unico che ha visto giusto» è proprio il centurione, «figura che balza all’improvviso sulla scena al termine del racconto», ma che ci tramanda «la professione di fede più grande e importante», segnando il «momento più alto» del Vangelo di Marco. «Una professione di fede», ha detto il vescovo, «più grande di quella di Pietro».
Ma cosa vede il centurione – uomo col cuore scolpito dalla «legge dura della vita», incaricato di eseguire le condanne a morte per crocifissione e abituato a sentire la disperazione e il desiderio di vendetta dei condannati – per compiere una così grande professione di fede? «Egli non vede miracoli o prodigi», ha detto il vescovo, «ma un uomo torturato che sta per morire come tanti altri». Eppure, ha insistito il presule, si accorge di un «Crocifisso diverso dagli altri», che «non si dispera», «non invoca vendetta», bensì «si affida al Padre chiedendo perdono per i suoi persecutori». Vede, cioè, «la potenza dell’amore che dona la vita, un Crocifisso speciale, non uguale agli altri». E capisce che «solo Dio muore così ed è capace di arrivare fino a questo punto», ha ancora detto Di Donna con un invito finale: «Cari amici, mettiamoci anche noi dalla parte di questo centurione, di questo soldato pagano, l’unico che ha visto giusto, per riconoscere la potenza dell’amore che risorge, la gloria della Croce, sola bellezza che salva il mondo».