La sera del 10 dicembre 2018, ad un anno esatto dalla morte, la Chiesa di Acerra ha ricordato il vescovo emerito monsignor Antonio Riboldi. Il vescovo di Acerra, monsignor Antonio Di Donna, ha presieduto una Celebrazione eucaristica di suffragio. Hanno concelebrato diversi sacerdoti. Presenti le Autorità civili. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato un Messaggio. Al termine della Messa i fedeli hanno visitato una mostra allestita per l’occasione nel Museo diocesano di fronte alla Cattedrale. La Roccia ha dedicato al vescovo emerito uno speciale omaggio. Contemporaneamente una Messa di suffragio è stata celebrata in altre parti d’Italia. Anche i rosminiani – monsignor Riboldi apparteneva alla Congregazione dell’Istituto di Carità fondato dal beato Antonio Rosmini – hanno pubblicato in questi giorni un volume che raccoglie inedite e toccanti testimonianze sulla personalità forte e ricca di monsignor Riboldi.
L’omelia integrale pronunciata dal vescovo Antonio Di Donna
A un anno dalla morte di monsignor Antonio Riboldi, celebriamo l’Eucarestia in suo suffragio. Contemporaneamente, lo stanno ricordando in questo momento, nella Celebrazione eucaristica, a Stresa, in Piemonte, il luogo dove è morto; a Roma, con i padri rosminiani, e anche a Santa Ninfa, in Sicilia.
Saluto voi tutti che avete accolto l’invito stasera. Saluto le Autorità, in particolare il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale non potendo venire, invitato, ha mandato un bel messaggio. Saluto il senatore Francesco Urraro, il sindaco di Acerra, Raffaele Lettieri. Saluto i sacerdoti e soprattutto quelli che hanno amato monsignor Riboldi.
Ricordo vivo. E’ ancora vivo il ricordo della sua morte, che ha avuto una risonanza nazionale. Abbiamo dato rilievo durante quest’anno, nell’aprile scorso, al 40esimo anniversario della sua ordinazione episcopale e della sua venuta ad Acerra. E’ stato un momento per riflettere sull’eredità che egli ci lascia. Inoltre, durante quest’anno, è stato costituito un gruppo che sta riordinando i tanti documenti di monsignor Riboldi, i numerosi articoli, le omelie, le lettere e molto altro, perché rimangano tracce del suo operato e si mantenga viva la sua memoria. Vogliamo obbedire a quanto dice l’autore della Lettera agli ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi». E noi vogliamo ricordarci di questo grande capo che è stato don Antonio. Sì, perché quella di monsignor Riboldi è stata una personalità forte, ricca. Non è l’omelia – che per suo statuto non deve essere un elogio celebrativo – il momento opportuno per illustrare i tanti aspetti di questa personalità. Rinvio perciò alle belle testimonianze su di lui contenute nel fascicolo preparato proprio in occasione del 40esimo anniversario della sua venuta ad Acerra, ma soprattutto alle testimonianze raccolte nel libro pubblicato in questi giorni a cura dei padri rosminiani, che potete trovare alla fine della Messa in uscita dalla Cattedrale insieme al numero speciale del nostro giornale diocesano La Roccia.
Profeta e pastore. Una vita lunga quella di monsignor Riboldi, ricca di opere e di giorni. Mi chiedo allora se si può racchiudere in una sola parola il significato di questa vita bella. Penso di si, e come già feci l’anno scorso nell’omelia delle esequie, provo a riassumere il senso della vita di don Antonio con l’immagine del profeta che ha dato speranza alla gente facendogli alzare la testa. Il pastore buono che ha ricostruito la Chiesa di Acerra.
E lo stesso facciamo stasera, facendoci guidare dalle due letture della Parola di Dio di questo lunedì della seconda settimana di Avvento.
Strada nel deserto. Nella prima lettura il profeta parla di una strada. Dice: «Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Sarà una via che il popolo potrà percorrere e nessuno si smarrirà». Poco dopo, lo stesso profeta in un altro passo dice che il Signore aprirà una strada nel deserto: «Nel deserto una strada aprirò».
La strada nel deserto! Era proprio questo il motto episcopale di monsignor Antonio Riboldi, come racconta egli stesso nell’omelia, un po’ autobiografica, per i suoi 90 anni di vita: «Entrato in diocesi, credetti non fosse il caso di avere uno stemma che disegnasse il mio servizio episcopale. Però, un giorno a distanza di otto anni, recandomi in un paese della Diocesi per le Cresime, un giovane che lavora in araldica, mi fece dono di un disegno in cui lui aveva riportato quello che pensava di me. Lo stemma, in stile araldico, aveva uno sfondo tutto azzurro che significava il deserto. Questo veniva attraversato a zig zag da una colomba ad ali spiegate. Sotto vi era una scritta che doveva spiegare il disegno ed essere quindi il senso, o il motto, del mio episcopato osservato da questo giovane: “Traccerò una strada nel deserto” (Isaia). L’accettai subito, perché era appunto ciò che si attendeva la Diocesi che il Signore mi aveva affidato».
Sì, traccerò a strada nel deserto, nel deserto della rassegnazione, della mancanza totale di speranza, della sudditanza ai capi i turno: don Antonio ha aperto una strada.
Motivazioni ultime. Ma attenzione! Attenzione a non ridurre monsignor Riboldi solo ad una bandiera dell’impegno civile e sociale. Egli è stato anzitutto un prete, un rossiniano, seguace del beato Antonio Rosmini; un vescovo, dunque è stato un pastore.
Monsignor Antonio Riboldi aveva la capacità di leggere i segni dei tempi nella vita di ogni giorno e di tradurre in questa vita il Vangelo. Non è stato solo un testimone civile, un eroe della legalità: o meglio, se lo è stato, lo è stato in virtù del suo essere pastore. Perché è stato anzitutto un pastore, è stato testimone dell’impegno per la giustizia.
L’anno scorso, nell’omelia delle esequie, ricordano le motivazioni ultime, le fonti del suo impegno.
Anzitutto il Vangelo, e solo il Vangelo, e tutto il Vangelo.
E poi il Concilio Vaticano II, il grande evento che ha rinnovato sotto il soffio dello Spirito la Chiesa dei nostri tempi. Quel Concilio che ci ha consegnato una Costituzione importantissima dal titolo “La Chiesa nel mondo contemporaneo”, e che incomincia con un proemio che dovrebbe essere stampato nel cuore e nella mente di tutti quelli che vogliono oggi, nel nostro tempo, testimoniare il Vangelo. Dice così questo documento, nelle sue prime parole: «Le gioie e le speranze, i dolori e le angosce, le sofferenze degli uomini di oggi e specialmente dei poveri, sono anche le gioie e le speranze, i dolori e le angosce, le sofferenze dei discepoli di Cristo, e niente vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». E’ solo l’inizio di questo documento, ma è tutto un programma!
Fede e storia. Tra le fonti di monsignor Riboldi, vanno poi ricordati gli Orientamenti della Chiesa italiana, soprattutto quel momento magico degli anni ’70, il Convegno Evangelizzazione e promozione umana, a cui lui fu chiamato a partecipare come parroco di Santa Ninfa.
Quel coniugare insieme fede e storia, fede e impegno civile, fede e promozione dell’uomo, come il vangelo di questa sera, la seconda lettura: Gesù guarisce il paralitico e perdona i suoi peccati. Guarisce e perdona i peccati: questo distingue un uomo di Chiesa da un operatore sociale. L’uomo di Chiesa obbedisce solo a Cristo, è fedele a Dio e all’uomo, non segue le mode del momento, non gli servo i voti e i consensi, non ha interessi da difendere, la sua autorità viene da Cristo, solo da Cristo. Perciò, è un uomo libero, non deve obbedire a nessun padrone, nemmeno ai voti o ai consensi del popolo.
Carità temporale, intellettuale e spirituale. Si fa un’operazione scorretta quando si separa l’impegno di un pastore dalle sue radici, dalle sue motivazioni che sono prettamente evangeliche.
Monsignor Riboldi è stato un autentico rosminiano, seguace del grande Rosmini. E per Rosmini la carità temporale, come la chiama lui, cioè l’impegno nel mondo, la carità verso i poveri non si può separare dalla carità intellettuale e dalla carità spirituale. Ci si impegna per i poveri, i “senzatutto” come li chiamava Riboldi, non per semplice motivazione politica o sociologica, ma per promuovere la dignità dell’uomo. L’uomo ci sta a cuore! L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. E per promuovere la dignità dei poveri, che sono la carne di Cristo: “Avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero in carcere, ero disoccupato, ero senza casa, ero ammalato e tu mi hai aiutato”.
Memoria nostra. Eppure, ancora oggi molti non capiscono questo! Certe volte mi chiedo quale Vangelo abbiamo annunciato e quale catechismo dell’infanzia abbiamo praticato se poi non si riesce a comprendere queste cose elementari! E oggi, cari amici, a distanza di un anno dalla sua morte, e negli anni futuri, che vogliamo fare? Ci vogliamo fermare alla memoria, alla lode dell’eroe defunto? Se la memoria di una persona, o di un evento, per quanto grandi, non diventa la nostra memoria, se non diventa stimolo per noi oggi, qui, a distanza di anni dal suo tempo, allora è solo esercizio sterile, e io non voglio perdere tempo a fare commemorazioni!
Quella strada che lui ha aperto nel deserto, obbediente ala parola di Isaia, purtroppo può essere di nuovo inghiottita dal deserto. Niente garantisce che quella strada una volta aperta nel deserto non torni di nuovo nel deserto, inghiottita da un nuovo deserto.
E di fatto la desertificazione avanza in mezzo a noi. I tempi dell’omelia non mi permettono di esemplificare, ma ci sono tanti segni che il deserto avanza, ritorna e copre quella strada che lui aveva aperto nel deserto.
Come Chiesa e come Città. Perciò è opportuno che come Chiesa e come Città ci interroghiamo con onestà intellettuale, con sincerità, si quanto è cambiato il nostro modo di essere Chiesa e di essere Città, su quanto la testimonianza di Riboldi ci vede attivi costruttori di giustizia e di fraternità. Allora come oggi, sarebbe un tradimento della sua opera assumere la posizione dello spettatore che applaude all’eroe solitario, al don Chisciotte di turno che combatte da solo; assumere la posizione di chi approva pure la sua azione ma poi rimane inerte, passivo, appagato dalla presenza dell’eroe.
Forse, vorrei timidamente azzardare, proprio questo è quello che rimane ancora da fare perché l’opera di monsignor Riboldi sia completa. Sì, perché essa in qualche modo, oso dire, è ancora incompleta. L’impegno per la promozione di un popolo, impegno per la giustizia, per la salvaguardia del Creato, dell’ambiente, e per la lotta contro il malaffare e la corruzione non sia l’opera di un eroe solitario, di un singolo, per quanto autorevole, ma sia l’opera di un’intera Comunità. Sia l’opera di tutta una Chiesa, di tutta una Città. Fino a quando questo non accadrà, l’opera di monsignor Riboldi rimane ancora incompleta.
La sua sepoltura nella sua e nostra Cattedrale, in mezzo a noi, perpetua per sempre la sua presenza. Sia di stimolo per noi, per Acerra, quel corpo tumulato qui, in questa Cattedrale.
Il suo nome, il suo copro sarà per sempre legato ad Acerra.
Dire Riboldi significa dire Acerra. Dire Acerra significa dire Riboldi. E questo per sempre.
Cattedrale di Acerra, 10 dicembre 2018
Antonio Di Donna
Vescovo