E’ l’annuncio solenne, il motivo della festa. Più volte ho ribadito che ai nostri tempi, specialmente in Europa, assistiamo a una specie di snaturamento del Natale. In nome di un falso rispetto verso altre culture e religioni – che spesso, purtroppo, nasconde la volontà di emarginare la fede cristiana – si elimina dalla festa ogni riferimento alla nascita di Gesù: ma senza di Lui non c’è più il Natale cristiano, scompare il vero e unico motivo della festa; con Lui al centro, anche il contorno – luci, suoni e tradizioni – concorre alla festa.
Il Natale del Signore è l’abbassamento di Dio, la kènosis dice san Paolo, che in greco significa svuotarsi dentro, abbassarsi, umiliarsi. Proprio a Betlemme – poco più di due mesi fa, insieme a 150 pellegrini della nostra diocesi, siamo stati in Terra Santa – ricordo bene che per visitare la grotta della Natività del Signore si entra nella grande Basilica la cui porta d’ingresso è volutamente bassa e ci si inchina: per entrare a vedere la grotta della nascita del Signore bisogna abbassarsi, perché Lui, il Creatore dell’universo, si è abbassato alla nostra piccolezza.«Il Presepe stupisce perché è segno di un Dio che si è fatto vicino a noi, un Dio reale, un Dio concreto, un Dio familiare» – un Dio, oso aggiungere io, talmente vicino che l’uomo l’ha ucciso – così familiare che l’uomo ne fa a meno. E il grido del filosofo Nietzsche, due secoli fa, è ancora attuale: “Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso”. E noi, cristiani di antica data, che abbiamo avuto così familiare Dio in mezzo a noi, come un bambino, uno di noi, che possiamo ormai farne a meno. Così si dice oggi: “L’uomo è diventato adulto, si è emancipato, anche da Dio”. Conserva le feste cristiane – il Natale è una di queste, ma non fa più riferimento al Dio che si è abbassato ed è venuto in mezzo a noi.Immersi nella nostra lunga notte Il Papa poi passa in rassegna i vari segni del Presepe, e in primo luogo mette in evidenza il contesto del cielo stellato, il silenzio della notte che fa da sfondo. Il grande Presepe, soprattutto napoletano, ha sempre sullo sfondo la notte. Questo Bambino nasce nella notte. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce», così si apre la liturgia della notte del Natale. Noi siamo immersi nella notte, nelle tenebre del mal di vivere, anche in pieno giorno. Il Censis – organismo che fotografa l’Italia – anche quest’anno parla dell’incertezza come stato d’animo diffuso degli italiani: aumenta l’ansia per il futuro, il mal di vivere; di una politica sempre più autoreferenziale, lontana dai bisogni dei cittadini, ammantata talvolta anche di segni religiosi di facciata, di chi li strumentalizza per farsi propaganda; siamo nelle tenebre dell’indifferenza verso il bene comune, la giustizia, il bene di tutti, chiusi nel nostro privato.Siamo immersi nella notte dell’inquinamento ambientale, un tema che ormai è diventata la cifra di questo tempo e del nostro territorio: nonostante gli sforzi delle Istituzioni – che bisogna onestamente riconoscere – anche l’ultima estate è stata flagellata dai rochi tossici; il problema dei rifiuti è lungi dall’essere risolto, di bonifiche non se ne parla, neppure dove si sa che i terreni sono inquinati; le centraline del controllo dell’aria continuano a sforare, Acerra sfora come Milano, e per il quinto anno consecutivo l’Arpac, ente regionale di controllo, certifica ufficialmente lo sforamento delle polveri sottili, e nessuno fa niente! L’inceneritore è ancora lì, non si sa che cosa bruci e quanto bruci. Siamo immersi nella notte: l’omicidio di camorra di qualche giorno fa, che ha insanguinato le nostre strade qui vicino alla cattedrale; lo spaccio di droga, di cui non si parla più come una volta, tacendo su questa piaga che non ha finito di mietere le sue vittime. E cosa dire a livello più generale del Sud che viene emarginato nella politica nazionale. Alcuni vescovi della Campania qualche mese fa hanno convocato i sindaci del loro territorio, ne è venuto fuori un messaggio terribile, dal titolo emblematico, che colpisce: la mezzanotte del mezzogiorno.La notte è ancora lunga, e va riconosciuta tale, con lucidità, con realismo. Qualcuno forse vorrebbe che cantassimo ancora oggi il ritornello di una vecchia canzone: facciamo finta che tutto va bene. E invece che il nostro primo dovere è di non mentire di fronte ai fatti: guardare la notte come notte.La rivoluzione dell’amore e della tenerezza Nel Presepe mettiamo anche le montagne, i ruscelli, le pecore, i pastori: tutto il Creato partecipa alla grande festa della venuta di questo Bambino. Il nostro sant’Alfonso lo dice con una frase meravigliosa nella sua canzone Quanno nascette Ninno: s’arruvutaie insomma tutt o munn, perché questo Bambino è venuto ad assumere e reintegrare tutto il Creato, la nostra casa comune, l’unica che abbiamo: la sua cura e salvaguardia deve starci a cuore. E poi mettiamo sul Presepe tante statuine simboliche. Anzitutto i mendicanti, gente povera: i poveri sono i privilegiati di questo mistero, quelli che più riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi. Il palazzo di Erode, nel Presepe, è sullo sfondo, sordo all’annuncio di gioia: sta nascendo il Bambino, ma il palazzo è chiuso. Nascendo nel Presepe, dice ancora il Papa, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza ai poveri, quella dell’amore, della tenerezza. E inoltre amiamo aggiungere al Presepe altre statuine, che sembrano non avere alcun rapporto con il Vangelo. Eppure l’immaginazione fa riempire i nostri Presepi di tanti personaggi: il pastore, il fabbro, il fornaio, i musicisti, le donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano, tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, il segno che Dio nasce nell’affaccendarsi della vita di ogni giorno. E poi c’è Maria, Giuseppe, soprattutto il Bambino. Come è commovente vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange, gioca, come tutti i bambini. Come sempre Dio ci sconcerta, è imprevedibile. Davanti al Presepe ci si commuove: beati ancora quelli che hanno la forza di commuoversi, anche di piangere, di avere sentimenti di tenerezza; guai a noi se la tenerezza scompare dall’orizzonte della nostra vita, se non siamo più capaci di compassionarci, di piangere, significa che sta avvenendo già una mutazione genetica dell’umano, siamo già diventati dei robot, entrati in un’epoca post-umana dove l’umano, la tenerezza, il sentimento, il pianto, la compassione sono scomparsi.Le parole di Vittorio Sgarbi In una trasmissione televisiva, un critico d’arte, in genere molto trasgressivo – Vittorio Sgarbi, che non molti amano, io stesso tante volte sono un po’ disturbato dai suoi interventi – rispondendo a un programma di Maurizio Crozza sul Natale, ha detto delle cose veramente belle: «Avete sentito Crozza dire delle cose molto intelligenti sul Natale, ribaltando l’idea della tradizione, che sarebbe messa in discussione dalla cultura musulmana, e da quanti pretendono che quella espressione di cultura cristiana venga messa in una dimensione privata. Sono le discussioni di quelli che non vogliono il Crocifisso, che non vogliono festeggiare il Natale, che non fanno il Presepe. Ognuno ha un’idea in mente che bisogna rispettare, e si pensa che per rispettare l’altro bisogna negare qualcosa di sé, come se integrazione, uno dei concetti più diffusi oggi, sia una specie di falsa tolleranza, un dogmatismo laicista, e cioè siamo laici, il Paese è laico, e bisogna dire di no a quello che sarebbe legato alla religione cristiana. Dovremmo con ciò una religione che è legata alla nostra visione del mono, tenerla in disparte per non turbare gli altri». E aggiunge: «No caro Crozza, Natale vuol dire una cosa diversa da quello che intendi tu. Natale vuol dire la nascita di una Persona che ha fatto una rivoluzione, “ama il prossimo tuo come te stesso“, è una religione quella cristiana in cui Dio scende in terra per diventare uomo, cioè si abbassa, si diminuisce, la vera divinità di Cristo è la sua umanità, il suo essere uomo. Noi festeggiamo questa Persona che ci ha reso amici, che ha trasformato l’homo homini lupus, uomo lupo per l’altro uomo, in homo homini Deus, l’uomo è Dio per l’altro uomo, per cui noi non possiamo far male all’altro. Allora il Natale vuol dire questo – dice Sgarbi – nessuna religione, caro Crozza, ha espresso tanta bellezza come la nostra». E poi indugia, come fa di solito a spiegare le opere d’arte: la Natività di Piero della Francesca, quella di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova … «Dobbiamo essere contenti – conclude – dobbiamo essere felici di tanta bellezza, di poter rappresentare Dio: nella religione musulmana ed ebraica Dio è troppo grande per essere rappresentato, è bestemmia rappresentarlo. Per noi, il nostro Dio è un uomo, e quindi posso parlare di Lui bambino, adolescente, adulto, innamorato; di Lui che fa l’ultima cena, che fa la cena in Emmaus“. E conclude così – per Crozza, quelli che hanno difficoltà come lui, e per noi: «Questa è la Natività, caro Crozza, questo vuol dire Natale, quindi buon Natale a tutti, che non siete nati il giorno in cui è nato Gesù Cristo, ma dovete a Gesù Cristo la vostra libertà, la vostra dignità di uomini, la vostra uguaglianza, l’indipendenza della donna, la bellezza, tutto noi dobbiamo a Lui». Avrei voluto tacere il suo nome, perché certe cose quando le diciamo noi preti e vescovi vengono date per scontate – è il nostro mestiere, dobbiamo fare questo – ma se le dice uno come Sgarbi, colpiscono. Ma ne è valsa la pena: dette da un insospettabile e trasgressivo credo abbiano più effetto. Buon Natale del Signore 2019.Cattedrale di Acerra, 25 dicembre 2019
Antonio Di Donna
Vescovo di Acerra